L'inizio del 2010 coincide con la scoperta della malattia.
Quando la dermatologa mi parla per la prima volta di una forma di "miosite", non mi allarmo: non ne so nulla e non appare affatto pericolosa con quel nome così gentile che mi ricorda i miosotis azzurri (comunemente "non ti scordar di me") delle mie amate montagne piemontesi.
Dopo una settimana mi fa la diagnosi di "dermatomiosite" con un lungo elenco di esami cui sottopormi, esami strani, alcuni comunemente noti come "markers", cioè marcatori del cancro. Insospettita, cerco informazioni scoprendo che la dermatomiosite è una malattia rara, una malattia immunologica che può essere paraneoplastica, cioè può manifestarsi in concomitanza col cancro, specialmente nelle persone mature. Ecco la prima botta emotiva.
Vengo presa in carico da un gruppo di specialisti: dermatologo, immunologo, oncologo - collegati
tra di
loro - che mi rivoltano come un calzino
per cercare quello che nessuno mai vorrebbe trovare.
Fisicamente sto male: le
notti sono insonni per il prurito e il bruciore insopportabili in gran parte
del corpo, i muscoli sono completamente off, anche quelli della gola, per cui
faccio fatica a deglutire e parlare. I medici mi somministrano dosi massicce di
cortisone che mi dà sollievo sedando i sintomi. Sono grata ai medicinali che mi
permettono di convivere dignitosamente con i sintomi della malattia: posso
leggere, stare in contatto con gli altri mediante telefonate e mail, posso
pregare. Grazie ai medicinali, le notti insonni, anziché farmi sprofondare
nella disperazione e nell’angoscia, diventano
momenti preziosi di libertà interiore e calma serena – un tempo in cui
posso stare in contatto virtuale con gli amici e alla presenza amorevole del
mio Signore e Dio.
Procedo con gli esami.
Un giorno sto facendo una banale ecografia all’addome. Vedo lo schermo su cui
lavora la dottoressa mentre con l’altra mano sposta lo strumento sul mio addome
grondante di gel, vedo sullo schermo la macchia rossa su cui la dottoressa
insiste, non sono allarmata, non so cosa può significare né di quale organo si
tratta.
Ad un tratto, però, entra un
altro medico, la dottoressa lo afferra
per il camice mentre questi passa oltre, sembra che lo interpelli con lo
sguardo, il medico si ferma, guarda lo
schermo, non fa commenti e va via.
Ecco il cancro – ho capito –
è lì.
Mentre mi rivesto, la
dottoressa viene a parlarmi: ci sono delle ombre e lei deve segnalarne la
presenza, ma di sicuro si tratta di aderenze innocue. La ringrazio senza
crederle e mi fa tenerezza per la cura con cui amorevolmente mi mente.
Faccio una Tac presso
l’ospedale San Luigi di Orbassano Torino dove sono seguita dall’immunologo.
Questo medico si è fatto
carico del mio caso, ha contattato gli altri specialisti e velocizzato gli
esami, diventando per me un punto di riferimento. Comincia ad esaminare le
lastre e poi ancora ed ancora – mio marito AL ed io, seduti, silenziosi –
e lui continua a guardare le lastre per
un tempo lunghissimo. Anche l’immunologo, come la dottoressa dell’ecografia, mi
fa tenerezza: non sta guardando le
lastre, sta cercando le parole, si sta chiedendo se noi vogliamo sapere la
verità, se siamo pronti.
Infine dice: “Abbiamo un
problema.”
Come siamo strani, noi
umani! In quel momento mi viene in mente il film Apollo 13 con la celebre
frase: “Houston, abbiamo un problema!”.
Non ricordo nulla di quanto
segue se non che contatta un famoso chirurgo e l’oncologo che già conosco
fissando con loro i passaggi successivi.
Infine ci saluta,
spiegandoci che ora si occuperanno di me il chirurgo e l’oncologo e che noi ci
rivedremo – dopo – per impostare una terapia per la malattia immunologica.
Augurandomi ogni bene, mi
abbraccia. Commossa dall’inaspettato
gesto di empatia, mi rifugio nel suo abbraccio e scoppio in lacrime.
Con AL usciamo dal reparto
piangendo entrambi e andiamo in cappella. Restiamo a lungo, in penombra e silenzio,
abbracciati. Offriamo al Signore le lacrime e il tumulto dei nostri cuori.
Ho il cancro al pancreas e
alcuni organi vicini sono già stati intaccati.
Le informazioni che riesco
poi a raccogliere, da fonti diverse,
purtroppo sono concordi nel definire la prognosi generalmente grave.
Nell’80% dei casi di cancro
al pancreas, al momento della diagnosi, lo stadio della neoplasia è già così
avanzato che sono possibili solo provvedimenti palliativi.
L’intervento chirurgico,
quando possibile, risulta molto impegnativo ed è associato ad una
mortalità che può arrivare fino al 10%.
Anche negli stadi iniziali
il tumore è molto aggressivo.
Qualche anno fa la
sopravvivenza media, al momento della diagnosi, era di 3-6 mesi; la
sopravvivenza di 5 anni era inferiore al 5%. Negli Stati Uniti la mortalità si
avvicinava al 99% mettendo il cancro al pancreas al primo posto come tasso di
mortalità tra tutte le forme di cancro.
Attualmente le cure
chemioterapiche stanno allungando i tempi di sopravvivenza.
Intanto sono trascorsi due
mesi. Il corpo mi sta abbandonando, sono molto dimagrita, a volte svengo, non
sono quasi più in grado di stare in piedi, forti spasmi al torace aumentano il
mio panico.
L’ultimo specialista che
incontro è il chirurgo: dice che sono operabile e predispone l’iter per
l’intervento presso l’ospedale Molinette di Torino.
Per ora mi fermo a questi eventi che risalgono ai primi mesi del 2010. Presto continuerò a scrivere sul blog, raccontandoti la mia storia. Se vuoi leggerla tutta e subito, puoi andare al mio sito:
www. signoretioffroilmiocancro.it
Ti abbraccio con affetto. Rosella
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