domenica 27 ottobre 2013

DOPO L'INTERVENTO


DOPO L’INTERVENTO
 
 

IL MOMENTO PIÙ BELLO DELLA MIA VITA
 
Riprendo coscienza di me stessa e vedo il volto di mio figlio PL.
È un’anteprima di paradiso.
Non sento il mio corpo né i traumi che ha subito né i collegamenti che lo tengono connesso alle macchine. Il letto mi accoglie caldo e morbido come una culla.
È un attimo breve prima che la mia coscienza torni a riposare nell’oblio – ma un attimo prezioso – carico di una gioia così intensa come credo di non aver mai provato prima.
Mi rendo conto che l’intervento è finito e che sono viva.
E mio figlio è lì, seduto accanto a me. Il suo bel viso, lo sguardo dolce, l’espressione preoccupata, persino il colore arancione della sua maglietta – tutto resterà impresso nella mia memoria. Come gli voglio bene! Come sono felice di vederlo!
Mi sento così bene! Sono in pace, serena, felice.
È tutto a posto. Vorrei restare così per sempre.

 

 LA DEGENZA
Resto in quella camera di terapia semi-intensiva per qualche giorno. Ho ricordi vaghi: pareti asettiche e macchinari, penombra e silenzio, totale assenza di dolore.
 
Poi vengo riportata nella vita reale: un reparto d’ospedale, gli anestetici diminuiti a scalare, il mio povero corpo martoriato che torna a farsi sentire.

La degenza scorre tra alti e bassi: alcuni problemi di carattere clinico, complicazioni, momenti di intenso dolore fisico ed altri di prostrazione emotiva.

Pregare? Come si fa a pregare in queste condizioni? Guardo il crocifisso appeso alla parete di fronte a me e, quando anche gli occhi sono troppo stanchi, li chiudo e mi concentro sul contatto con l’anellino-rosario che ho all’anulare. Mi basta quel semplice tocco e non sono mai sola.

Una sera, febbricitante, dico a AL:
“Non ne vengo fuori.”
E lo penso veramente.

Durante la stessa notte sono tormentata da crisi di tosse che sembrano squarciare torace ed addome già doloranti per l’intervento, inondo il letto di sudore, rabbrividisco, tremo, sono molto agitata.
La cognata che mi assiste mi suggerisce dolcemente:
“Cerca di non spazientirti ché poi stai peggio. Prega tua mamma che ti aiuti!”
Ancora nervosa, mi rivolgo ai miei genitori:
“Mamma, papà – se volete darmi una mano – beh, adesso è ora”.
Poi, dentro di me, inconsciamente, viene pregata un’Ave Maria e poi un’altra e un’altra ancora. Mi quieto e riesco a riposare.

 

GRAZIE

Ho così tanti motivi di gratitudine!
Appena sono in grado di scrivere, faccio la mia “lista delle gratitudini”.


Sono uscita viva dall’intervento ed i chirurghi dicono che è andato tutto bene: hanno asportato milza, parte del pancreas e dello stomaco.

L’intestino non è stato toccato e non ho stomie; la glicemia è a posto. Sono grata.

AL e PL trascorrono con me tutto il tempo che viene loro concesso dalle regole del reparto.

Le amiche fanno il turno per venirmi a trovare e mi sono sempre vicine con messaggi e mail. Sono grata.

Ben presto vengo sollevata del sondino naso-gastrico e poi del catetere urinario, faccio il mio primo mini-pasto, gradualmente mi rimuovono i drenaggi addominali ed i punti di sutura, infine vengo scannulata.
È una sensazione bellissima, mi ritrovo completamente “libera”, faccio con AL alcuni passi in corridoio senza più “macchinari a traino” e poi mi posso coricare finalmente un po’ su un fianco.
Grandi conquiste!
Sono grata.

Un giorno vengo lasciata sola nel grande reparto di analisi per un’ecografia: imbacuccata, su una sedia a rotelle, la sensazione di perdere i sensi, ed un via-vai di persone sconosciute – pazienti, esterni, medici, infermieri – che non badano a me.
Che sollievo quando appare l’infermiere del “mio” reparto che torna a prendermi! È come ritrovare una cara persona di famiglia e gli regalo il mio sorriso migliore.
Gli sono grata.

E sono grata ai chirurghi, ai medici, agli infermieri, agli studenti, agli inservienti, al personale delle pulizie, a tutti – sia quelli scorbutici ed ingrugniti sia quelli che sono un balsamo per il corpo e per lo spirito.

Uno degli ultimi giorni, faccio qualche passo da sola nel grande corridoio del reparto. Dietro un bancone, un medico sta lavorando al computer. Gli chiedo notizie del mio istologico.
“È arrivato, sto appunto aggiornando la sua cartella clinica.”
“Posso vederlo?”
Mi guarda confuso rendendosi conto di essersi cacciato in un pasticcio.
“Non si preoccupi. Lo so che si tratta di cancro. Lo sapevo anche prima dell’operazione.”
Mi dà il foglio, lo scorro velocemente: c’è la descrizione di tutto il materiale che mi è stato asportato, termini medici che non comprendo, sigle formate da lettere e numeri che intuisco essere la “schedatura” della mia malattia oncologica.
Lo restituisco cercando di bloccare il fiotto di pianto che mi buca gli occhi.
Voglio andare nel mio letto e nascondermi sotto le lenzuola ma incrocio due infermieri e con loro scoppio a piangere.
Lui è un infermiere giovane che ho classificato tra gli “angeli del reparto” – lei invece è tra gli “scorbutici-ingrugniti”.
Questa donna mi prende con decisione tra le sue braccia, mi fa appoggiare il capo sul suo seno e quasi cullandomi mi dice: “Vieni qui, vieni dalla mamma, piangi tranquilla, stai tranquilla”.
Grazie grazie grazie.



LA MIA CASA, IL MIO LETTO
 
Torniamo a casa ed arriviamo che è già buio.
La casa è vuota, fredda, silenziosa. Mi rendo conto che non ci sarà il campanello da suonare in caso di bisogno, non ci sarà il via-vai di camici e divise, neanche la biondina che cantava facendo le pulizie.
Provo una sensazione di panico:
“E adesso? Come facciamo? Dobbiamo cavarcela da soli.”

AL mi prepara una minestrina e poi mi aiuta a mettermi a letto.

Come sto bene nel mio letto! Ora sono tranquilla e mi rilasso nel dolce tepore che mi accoglie.

Ricordo quando eravamo partiti: piangendo, avevo salutato la mia casa e, dalla finestra del soggiorno, anche la chiesa con il campanile e la cupola e la madonnina dorata.
Ora sono di nuovo a casa.
AL, calmo ed amorevole, si prende cura di me, sono nel mio letto – il più bel posto del mondo – e sono serena.

“Signore, ti ringrazio. Buona notte. Resta con me.”
 
 
 
 
LA CONVALESCENZA

La convalescenza è lunga e faticosa: settimane di febbre, continui problemi intestinali,  una seria complicazione renale, ed ancora malessere ad ogni assunzione di cibo pur se in piccole quantità.

Non ce la faccio a stare in piedi, fare due passi in corridoio, provvedere all’igiene personale – sono stanca stanca stanca.
Non ho le energie per sopportare la chemioterapia che dovrei iniziare.

Ripeto come un mantra il versetto di san Paolo (Fil 4,13):
“Tutto posso in Colui che mi dà la forza”.
E prego Dio di darmi la sua forza, di infonderla in me, di darmene la consapevolezza.
Ho bisogno di forza, della forza che mi viene da Dio.

AL mi rincuora facendomi notare i progressi compiuti ma io ho la sensazione di scendere sempre più in basso.

 

INCONTRI

Una notte, febbricitante, dico a AL come quell’altra volta in ospedale:
“Non ne vengo fuori”.
Lui mi mette delle pezzuole fresche sulla fronte, sta un po’ seduto accanto a me tenendomi la mano e, quando mi vede più tranquilla, si allontana piano.

 
Sulla sedia rimasta vuota, lì accanto al mio letto, immagino di vedere Maria.
Allungo il braccio fuori dalle coperte e lo appoggio sulle sue ginocchia.

Ciao Maria.
Sei venuta a vegliarmi? Grazie. Resta qui con me anche se mi addormento.
Chissà quante volte hai vegliato Gesù quand’era bambino!
E certamente avrai vegliato Giuseppe nelle sue ultime ore.
E chissà quanti malati, quanti seguaci di Gesù, quanti discepoli!
Forse anche tu sei stata ammalata e morente e “vegliata” da Giovanni, lasciato a te come figlio, da Gesù sulla croce.
Ciao Maria.
I miei genitori sono qui con noi?
Ciao Maria. Ora mi sento in pace. Buona notte!


 

Sto sognando?
Sto visualizzando come ero solita fare durante la meditazione?
Sto avendo un’allucinazione dovuta allo stato febbrile?

Sono coricata supina, le mani incrociate sulla parte gonfia e dolorante del torace e dell’addome, nel buio e nel silenzio.
Come Gesù nel sepolcro.
Gesù è coricato supino, le mani incrociate sulla parte gonfia e dolorante del diaframma e del costato, nel buio e nel silenzio.
Buio, silenzio, freddo, immobilità.
Un fiotto caldo, un impercettibile movimento della mano, il calore lentamente prende ad espandersi nel corpo, le mani e i piedi si muovono ed avvertono la lieve costrizione di un tessuto confortevole.
Fuori è buio, il cielo appena trascolora ad oriente, gli uccelli e il vento sono silenti.
Gli occhi ancora chiusi, la consapevolezza piena di se stesso, il benessere fisico – la  fronte, la gola, i polmoni, le mani, i piedi, il costato, i nervi, i muscoli – tutto il corpo in uno stato di gioioso benessere.
Un raggio di luce filtra in una fessura tra le pietre del sepolcro, le palpebre si socchiudono, le labbra sorridono.
Una esplosione di luce, calore ed energia.
Dio Amore Vita Resurrezione.
Il sole è ormai alto.
Gesù cammina nell’orto, avverte la rugiada dell’erba, il profumo dei fiori e degli arbusti, il canto degli uccelli ed il soffio del vento.
Tutto il suo essere è un canto di lode a Dio Padre.
Ora Gesù è tutt’uno con Dio Padre.
Ora Gesù è il Signore Risorto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
V VHK   ,M ,

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